L'Arsenale greco di Taranto e la sua probabile collocazione urbana
di Mario Lazzarini sul Corriere del Giorno del 18 dicembre 2012
di Mario Lazzarini sul Corriere del Giorno del 18 dicembre 2012
Tempo addietro si è tenuto presso il MARTA, per iniziativa dell’Associazione di Cultura Classica di Taranto, un incontro aperto al pubblico (non molto, per la verità) sui risultati delle ultime ricerche archeologiche in Puglia e a Taranto. Argomento già trattato dalla Soprintendenza Archeologica nell’ultimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia.
Si è parlato anche degli ultimi scavi nel cortile alle spalle dell’ex convento di S. Antonio nonché ex carcere, zona prospiciente la sponda meridionale di Mar Piccolo. Sono emersi interessanti terrazzamenti della costa, realizzati con anfore e cumuli di murici provenienti dai vicini opifici della porpora (sotto la villa Peripato), che sono stati messi in relazione con una sistemazione dell’area portuale in età ellenistica.
Che tutta la zona compresa tra il convento di S. Antonio e l’Ospedale militare rappresentasse l’affaccio sul porto grande di Taranto in Mar Piccolo era cosa abbastanza nota, sia per il rinvenimento anche in passato di numerosi esemplari di anfore, ben noti contenitori commerciali per il trasporto navale nell’antichità, sia per la ricca monumentalità presente nell’area: il teatro, forse un tempio, una scalinata monumentale di accesso al porto, molte stipi votive con sacelli, ecc. Tutti elementi che oggi o sono scomparsi perché coinvolti negli ampi lavori di fine ‘800 per la costruzione dell’Arsenale o giacciono semisconosciuti e inesplorati essendo inclusi in aree militari; ma che comunque testimoniano che in quella zona era il cuore pulsante della Taras antica almeno dalla metà del V sec. a. C.. E quegli allineamenti di grandi blocchi squadrati che il Viola vide sommersi lungo la costa di Mar Piccolo in quel punto, poi scomparsi perché inglobati nella Banchina Torpediniere, ben potevano essere i resti di due ampi moli che chiudevano il bacino portuale; come si è giustamente supposto contro il parere del Viola stesso che vi vedeva piuttosto resti di fortificazioni.
Un altro porto, probabilmente il primo e più antico, era quello che si estendeva in Mar Piccolo sotto l’antica acropoli greca, l’attuale Città Vecchia, che era però molto meno estesa di oggi non essendoci ancora la “colmata bizantina” del X sec. d. C. La costa in quel punto doveva essere alta e rocciosa, come dimostra il cosiddetto salto di quota di circa 15 m. nell’attuale via di Mezzo, e l’area portuale una striscia di spiaggia abbastanza risicata.
In entrambi i casi si trattava di porti commerciali, intensamente frequentati dato il ricco import-export della Taranto magnogreca.
Ma sappiamo che Taranto, all’apice della sua potenza politica, economica e militare (IV sec. a. C.) disponeva di una flotta da guerra ragguardevole e, come dice lo storico greco Strabone, “la più grande fra quelle dei popoli in Magna Grecia”. Una flotta tale da rendere l’intero Golfo di Taranto area di esclusivo controllo tarantino, come dovette riconoscere anche Roma col famoso trattato romano-tarantino del 303 a. C., che nella linea ideale da Capo Lacinio (Crotone) al capo di Leuca stabiliva un limite invalicabile per le navi romane. E testimoniata dalla relativa facilità con cui, nel 282 a. C., una flotta tarantina riuscì a disperdere le dieci navi romane presentatesi in Mar Grande, affondandone quattro e catturandone una.
Manca una quantificazione numerica complessiva, è vero, ma si potrebbe fare un confronto con altre grandi potenze navali del tempo. La maggiore, Atene, poteva schierare circa 300 “trière”, imbarcazioni da guerra con 170 rematori disposti su tre ordini sovrapposti, tipo di nave militare standard nel V e IV sec. a. C.. Con questa flotta Atene controllava l’intero Mar Egeo, e nella famosa spedizione in Sicilia contro Siracusa (415-413 a. C.) potè inviare 134 trière in un primo momento, più altre 73 successivamente. In quella stessa guerra i Siracusani con 80 trière riuscirono a bloccare nel porto grande della loro città la forza navale ateniese.
Nella vittoriosa battaglia delle Arginuse (406 a. C.) contro Sparta, Atene schierava 160 trière; mentre nell’ultimo scontro navale con il nemico spartano, quello di Egospotami (405 a. C.), l’intera flotta ateniese di 180 trière (tranne una ventina che riuscirono a sfilarsi) fu catturata o distrutta. Il navarco (ammiraglio) spartano Lisandro ne comandava 150.
Ma si trattava di due grandi potenze dell’epoca, al colmo del loro sforzo bellico, quando è normale che tutte le risorse produttive di uno stato si concentrino sugli armamenti.
Per Taranto sarebbe forse più utile il confronto con Siracusa, altra potenza marittima del Mediterraneo centrale, oltre tutto in buoni rapporti con Taranto ai tempi di Archita; e, come si è detto, Siracusa nella battaglia del porto grande schierò 80 trière. Più o meno da altrettante unità si potrebbe supporre composta la flotta tarantina.
Orbene, nell’antichità normalmente si navigava solo nella stagione primaverile-estiva (metà marzo-fine settembre), sia in campo commerciale che in quello militare, perché le navi non erano assolutamente attrezzate per affrontare le cattive condizioni meteomarine invernali. In particolare le navi da guerra, e le trière, avevano scafi particolarmente fragili e leggeri. Le qualità essenziali che si richiedevano a una trière erano velocità e rapidità di manovra, che si ottenevano con scafi molto lunghi e sottili (m. 36 x 6 circa), con scarso pescaggio (non più di 1 m.), spinti da 170 rematori in tre file sovrapposte, ben addestrati ma male alloggiati: oltre ai banchi dei rematori a bordo non vi era spazio per quasi null’altro, tranne due piccoli ponti a poppa e a prua, dove prendevano posto il timoniere e pochi soldati di scorta per gli abbordaggi. Un corto albero con vela quadrata in posizione centrale e un alberetto inclinato a prua aiutavano la navigazione nei trasferimenti, ma in battaglia venivano sfilati dai loro alloggi e ripiegati lungo lo scafo, o addirittura lasciati a terra se possibile, per alleggerire la nave, e la forza propulsiva utilizzata era esclusivamente quella dei remi. Per diminuire il peso nella costruzione si usava soprattutto legno di pino, più leggero della quercia e di altre essenze, ma anche più fragile. A bordo non era possibile dormire per mancanza di spazio (i rematori riposavano a turno sugli stessi banchi) né cucinare un pasto né avere grosse scorte d’acqua; perciò al tramonto si cercava di approdare su una spiaggia dove tirare in secco la leggera imbarcazione e consentire all’equipaggio di procurarsi acqua e cibo e riposare.
Detto ciò si capisce come le trière avessere bisogno di continua manutenzione e sostituzione degli elementi logori, la qual cosa avveniva in autunno-inverno quando, tranne in casi di emergenza assoluta, le navi erano in porto e, disarmate (cioè private delle sovrastrutture, dell’alberatura e dei remi) venivano tratte in secco in appositi scali coperti (in greco “neòria”) e lì sottoposte a revisione e riparazione. Gli alberi, i remi, i timoni e il sartiame subivano lo stesso trattamento in altri capannoni nelle immediate vicinanze (“skeuothèke” in greco), disposti in grandi scaffalature lignee. Insomma una sorta di arsenale. Questi “neòria” avevano dimensioni di circa m. 40 per 6-6,50, appena appena più grandi dello scafo di una trière, ed erano in genere costituiti da una muratura di fondazione rettangolare da cui si levavano, sui lati lunghi, dei pilastri che sorreggevano una tettoia di legno e tegole; ed erano allineati affiancati sulla riva, con scivoli dalla parte verso mare, spesso tagliati nella viva roccia. Ne sono state rinvenute tracce archeologiche in quasi tutti i grandi porti antichi del Mediterraneo; ad Atene, nei porti militari di Munichia e Zea, presso il Pireo, se ne contano 270 (che corrispondono alle circa 300 trière di cui si è detto prima).
Anche Taranto, allora, doveva avere il suo antico arsenale, ma dove? In genere si tenevano separati il porto militare da quello commerciale, per evitare pericolosi intralci; come ad Atene, dove il Pireo (commerciale) era sull’altro lato della penisoletta dove erano i porti militari di Munichia e Zea (oggi Mikrolìmani e Pashalìmani).
Che le navi da guerra tarantine fossero stabilmente in Mar Piccolo è testimoniato, oltre che dal buon senso, anche dal famoso episodio del 212 a. C.: Annibale, presa Taranto ma impossibilitato a farne uscire la flotta in Mar Grande perché i Romani presidiavano l’acropoli e l’accesso al porto, fu costretto a trascinare per via di terra le imbarcazioni da un mare all’altro lungo la depressione nella penisola dove oggi c’è il canale navigabile.
Nel 1883 Luigi Viola rinvenne presso l’attuale discesa del Vasto 5 muri di epoca greca, paralleli fra loro e allineati in direzione nord-sud sull’antico litorale, a formare degli stretti corridoi, che egli ritenne moli portuali: mancano dati di scavo e misure, ma è possibile che più che di moli si trattasse di scali coperti (“neòria”). Solo quelli? Lo spazio lungo la costa di Mar Piccolo della Città Vecchia era molto ristretto, lungo un bastione roccioso su cui sorgeva l’acropoli: poteva ospitare almeno 70-80 “neòria” ed altri capannoni dell’arsenale? Era necessaria, solo per i “neòria”, un’area di almeno m. 500 per 50; ma in tal caso il resto delle attività e installazioni portuali commerciali non avrebbero avuto alcuno spazio per svilupparsi.
Nel porto più recente, sotto l’ex convento di S. Antonio e l’Ospedale Militare in città nuova per intenderci, gli spazi non dovevano essere molto diversi perché anche lì il costone roccioso digrada rapidamente su Mar Piccolo e furono necessari terrazzamenti per evitare i crolli; inoltre le necessità del traffico mercantile dovevano assorbire tutto lo spazio disponibile.
E allora? Allora non rimane che l’ampia insenatura di S. Lucia, con una spiaggia sufficientemente vasta (i tarantini di un tempo ci andavano in massa a fare Pasquetta) e acque basse che facilitavano l’alaggio delle trière.
Proprio dove la Regia Marina costruì a fine ‘800 il grande “bacino di raddobbo” dell’Arsenale, intitolato inizialmente al Principe di Napoli e poi a Benedetto Brin. In quei lavori, che sconvolsero totalmente l’area e cambiarono la topografia di Taranto, fu certamente cancellata definitivamente ogni residua traccia archeologica di più antiche installazioni portuali.
Questa esposta è solo una mia ipotesi, ma non è suggestivo pensare che l’arsenale di Taranto greca fosse nello stesso posto in cui sorge oggi il moderno arsenale della Marina Militare?
E se non è suggestivo, comunque è triste.
Si è parlato anche degli ultimi scavi nel cortile alle spalle dell’ex convento di S. Antonio nonché ex carcere, zona prospiciente la sponda meridionale di Mar Piccolo. Sono emersi interessanti terrazzamenti della costa, realizzati con anfore e cumuli di murici provenienti dai vicini opifici della porpora (sotto la villa Peripato), che sono stati messi in relazione con una sistemazione dell’area portuale in età ellenistica.
Che tutta la zona compresa tra il convento di S. Antonio e l’Ospedale militare rappresentasse l’affaccio sul porto grande di Taranto in Mar Piccolo era cosa abbastanza nota, sia per il rinvenimento anche in passato di numerosi esemplari di anfore, ben noti contenitori commerciali per il trasporto navale nell’antichità, sia per la ricca monumentalità presente nell’area: il teatro, forse un tempio, una scalinata monumentale di accesso al porto, molte stipi votive con sacelli, ecc. Tutti elementi che oggi o sono scomparsi perché coinvolti negli ampi lavori di fine ‘800 per la costruzione dell’Arsenale o giacciono semisconosciuti e inesplorati essendo inclusi in aree militari; ma che comunque testimoniano che in quella zona era il cuore pulsante della Taras antica almeno dalla metà del V sec. a. C.. E quegli allineamenti di grandi blocchi squadrati che il Viola vide sommersi lungo la costa di Mar Piccolo in quel punto, poi scomparsi perché inglobati nella Banchina Torpediniere, ben potevano essere i resti di due ampi moli che chiudevano il bacino portuale; come si è giustamente supposto contro il parere del Viola stesso che vi vedeva piuttosto resti di fortificazioni.
Un altro porto, probabilmente il primo e più antico, era quello che si estendeva in Mar Piccolo sotto l’antica acropoli greca, l’attuale Città Vecchia, che era però molto meno estesa di oggi non essendoci ancora la “colmata bizantina” del X sec. d. C. La costa in quel punto doveva essere alta e rocciosa, come dimostra il cosiddetto salto di quota di circa 15 m. nell’attuale via di Mezzo, e l’area portuale una striscia di spiaggia abbastanza risicata.
In entrambi i casi si trattava di porti commerciali, intensamente frequentati dato il ricco import-export della Taranto magnogreca.
Ma sappiamo che Taranto, all’apice della sua potenza politica, economica e militare (IV sec. a. C.) disponeva di una flotta da guerra ragguardevole e, come dice lo storico greco Strabone, “la più grande fra quelle dei popoli in Magna Grecia”. Una flotta tale da rendere l’intero Golfo di Taranto area di esclusivo controllo tarantino, come dovette riconoscere anche Roma col famoso trattato romano-tarantino del 303 a. C., che nella linea ideale da Capo Lacinio (Crotone) al capo di Leuca stabiliva un limite invalicabile per le navi romane. E testimoniata dalla relativa facilità con cui, nel 282 a. C., una flotta tarantina riuscì a disperdere le dieci navi romane presentatesi in Mar Grande, affondandone quattro e catturandone una.
Manca una quantificazione numerica complessiva, è vero, ma si potrebbe fare un confronto con altre grandi potenze navali del tempo. La maggiore, Atene, poteva schierare circa 300 “trière”, imbarcazioni da guerra con 170 rematori disposti su tre ordini sovrapposti, tipo di nave militare standard nel V e IV sec. a. C.. Con questa flotta Atene controllava l’intero Mar Egeo, e nella famosa spedizione in Sicilia contro Siracusa (415-413 a. C.) potè inviare 134 trière in un primo momento, più altre 73 successivamente. In quella stessa guerra i Siracusani con 80 trière riuscirono a bloccare nel porto grande della loro città la forza navale ateniese.
Nella vittoriosa battaglia delle Arginuse (406 a. C.) contro Sparta, Atene schierava 160 trière; mentre nell’ultimo scontro navale con il nemico spartano, quello di Egospotami (405 a. C.), l’intera flotta ateniese di 180 trière (tranne una ventina che riuscirono a sfilarsi) fu catturata o distrutta. Il navarco (ammiraglio) spartano Lisandro ne comandava 150.
Ma si trattava di due grandi potenze dell’epoca, al colmo del loro sforzo bellico, quando è normale che tutte le risorse produttive di uno stato si concentrino sugli armamenti.
Per Taranto sarebbe forse più utile il confronto con Siracusa, altra potenza marittima del Mediterraneo centrale, oltre tutto in buoni rapporti con Taranto ai tempi di Archita; e, come si è detto, Siracusa nella battaglia del porto grande schierò 80 trière. Più o meno da altrettante unità si potrebbe supporre composta la flotta tarantina.
Orbene, nell’antichità normalmente si navigava solo nella stagione primaverile-estiva (metà marzo-fine settembre), sia in campo commerciale che in quello militare, perché le navi non erano assolutamente attrezzate per affrontare le cattive condizioni meteomarine invernali. In particolare le navi da guerra, e le trière, avevano scafi particolarmente fragili e leggeri. Le qualità essenziali che si richiedevano a una trière erano velocità e rapidità di manovra, che si ottenevano con scafi molto lunghi e sottili (m. 36 x 6 circa), con scarso pescaggio (non più di 1 m.), spinti da 170 rematori in tre file sovrapposte, ben addestrati ma male alloggiati: oltre ai banchi dei rematori a bordo non vi era spazio per quasi null’altro, tranne due piccoli ponti a poppa e a prua, dove prendevano posto il timoniere e pochi soldati di scorta per gli abbordaggi. Un corto albero con vela quadrata in posizione centrale e un alberetto inclinato a prua aiutavano la navigazione nei trasferimenti, ma in battaglia venivano sfilati dai loro alloggi e ripiegati lungo lo scafo, o addirittura lasciati a terra se possibile, per alleggerire la nave, e la forza propulsiva utilizzata era esclusivamente quella dei remi. Per diminuire il peso nella costruzione si usava soprattutto legno di pino, più leggero della quercia e di altre essenze, ma anche più fragile. A bordo non era possibile dormire per mancanza di spazio (i rematori riposavano a turno sugli stessi banchi) né cucinare un pasto né avere grosse scorte d’acqua; perciò al tramonto si cercava di approdare su una spiaggia dove tirare in secco la leggera imbarcazione e consentire all’equipaggio di procurarsi acqua e cibo e riposare.
Detto ciò si capisce come le trière avessere bisogno di continua manutenzione e sostituzione degli elementi logori, la qual cosa avveniva in autunno-inverno quando, tranne in casi di emergenza assoluta, le navi erano in porto e, disarmate (cioè private delle sovrastrutture, dell’alberatura e dei remi) venivano tratte in secco in appositi scali coperti (in greco “neòria”) e lì sottoposte a revisione e riparazione. Gli alberi, i remi, i timoni e il sartiame subivano lo stesso trattamento in altri capannoni nelle immediate vicinanze (“skeuothèke” in greco), disposti in grandi scaffalature lignee. Insomma una sorta di arsenale. Questi “neòria” avevano dimensioni di circa m. 40 per 6-6,50, appena appena più grandi dello scafo di una trière, ed erano in genere costituiti da una muratura di fondazione rettangolare da cui si levavano, sui lati lunghi, dei pilastri che sorreggevano una tettoia di legno e tegole; ed erano allineati affiancati sulla riva, con scivoli dalla parte verso mare, spesso tagliati nella viva roccia. Ne sono state rinvenute tracce archeologiche in quasi tutti i grandi porti antichi del Mediterraneo; ad Atene, nei porti militari di Munichia e Zea, presso il Pireo, se ne contano 270 (che corrispondono alle circa 300 trière di cui si è detto prima).
Anche Taranto, allora, doveva avere il suo antico arsenale, ma dove? In genere si tenevano separati il porto militare da quello commerciale, per evitare pericolosi intralci; come ad Atene, dove il Pireo (commerciale) era sull’altro lato della penisoletta dove erano i porti militari di Munichia e Zea (oggi Mikrolìmani e Pashalìmani).
Che le navi da guerra tarantine fossero stabilmente in Mar Piccolo è testimoniato, oltre che dal buon senso, anche dal famoso episodio del 212 a. C.: Annibale, presa Taranto ma impossibilitato a farne uscire la flotta in Mar Grande perché i Romani presidiavano l’acropoli e l’accesso al porto, fu costretto a trascinare per via di terra le imbarcazioni da un mare all’altro lungo la depressione nella penisola dove oggi c’è il canale navigabile.
Nel 1883 Luigi Viola rinvenne presso l’attuale discesa del Vasto 5 muri di epoca greca, paralleli fra loro e allineati in direzione nord-sud sull’antico litorale, a formare degli stretti corridoi, che egli ritenne moli portuali: mancano dati di scavo e misure, ma è possibile che più che di moli si trattasse di scali coperti (“neòria”). Solo quelli? Lo spazio lungo la costa di Mar Piccolo della Città Vecchia era molto ristretto, lungo un bastione roccioso su cui sorgeva l’acropoli: poteva ospitare almeno 70-80 “neòria” ed altri capannoni dell’arsenale? Era necessaria, solo per i “neòria”, un’area di almeno m. 500 per 50; ma in tal caso il resto delle attività e installazioni portuali commerciali non avrebbero avuto alcuno spazio per svilupparsi.
Nel porto più recente, sotto l’ex convento di S. Antonio e l’Ospedale Militare in città nuova per intenderci, gli spazi non dovevano essere molto diversi perché anche lì il costone roccioso digrada rapidamente su Mar Piccolo e furono necessari terrazzamenti per evitare i crolli; inoltre le necessità del traffico mercantile dovevano assorbire tutto lo spazio disponibile.
E allora? Allora non rimane che l’ampia insenatura di S. Lucia, con una spiaggia sufficientemente vasta (i tarantini di un tempo ci andavano in massa a fare Pasquetta) e acque basse che facilitavano l’alaggio delle trière.
Proprio dove la Regia Marina costruì a fine ‘800 il grande “bacino di raddobbo” dell’Arsenale, intitolato inizialmente al Principe di Napoli e poi a Benedetto Brin. In quei lavori, che sconvolsero totalmente l’area e cambiarono la topografia di Taranto, fu certamente cancellata definitivamente ogni residua traccia archeologica di più antiche installazioni portuali.
Questa esposta è solo una mia ipotesi, ma non è suggestivo pensare che l’arsenale di Taranto greca fosse nello stesso posto in cui sorge oggi il moderno arsenale della Marina Militare?
E se non è suggestivo, comunque è triste.
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