giovedì 14 febbraio 2013

I contributi dei nostri amici / 1

Abbiamo chiesto ad alcuni amici greci e italiani che vivono in Grecia, o che comunque ne conoscono la realtà con chiara competenza, di raccontarci la loro Grecia, scriverci poche righe o tante parole per vivacizzare questo blog, per aprire dibattiti, per stimolare la riflessione sul dannato Paese ellenico che tutti amiamo, per contribuire a conoscere sempre meglio una Terra e un Popolo forte, dignitoso, coraggioso, che nei secoli ha vinto e perso tante battaglie, e quella politico-economica di questi ultimi anni non sarà forse l'ultima e nemmeno la più grave.
Le risposte sono state immediate e positive, più di quanto potessimo sperare. Gli interventi ci sono stati promessi e presto cominceranno ad arrivare, a seguire il primo e più tempestivo, un'analisi storico sociale di Maurizio De Rosa da Atene che definire semplicemente come contributo non renderebbe merito alla profondità e all'ampiezza di osservazione degli argomenti trattati. L'osservatorio privilegiato da cui spazia Maurizio e la sua competenza professionale che gli consentono di cavalcare due culture e due lingue, quella italiana e quella greca, hanno dato vita in poche ore ad un compendio, un saggio pregevole e utile a chiunque desideri avvicinarsi al mondo ellenico, e gli siamo grati che lo abbia voluto donare al Dopolavoro Filellenico.
Auspichiamo che possa essere un punto di partenza che richiami ulteriori riflessioni, che apra quel dibattito che ci eravamo proposti, che getti luce sulla società greca del nostro tempo e contribuisca ad avvicinarne nuovi e convinti amici.
Inutile scrivere che il contributo di ognuno non solo è gradito, ma soprattutto atteso.




E all’improvviso fu la Grecia. Un Paese che negli ultimi 35 anni gli italiani si erano abituati a considerare niente più che un appartato paradiso per le vacanze, un luogo indispensabile per la consapevolezza europea (almeno nell’animo di chi nutre sensibilità del genere), con un passato illustre, ma al riparo dai sussulti della Storia. In altre parole, il ritratto della Grecia che ci ha offerto, una ventina d’anni fa, Gabriele Salvatores nel film premio Oscar Mediterraneo: un luogo dove fuggire e nascondersi dal divenire. Quale ironia! Perché, al contrario, la Storia è sempre stata molto presente in Grecia. Ancora negli anni Settanta questa consapevolezza era viva: il settennato della giunta militare dei Colonnelli coincideva con la particolare situazione politica e sociale italiana creando una corrente d’interesse nei confronti di tutto quello che arrivava da Oltreionio: la musica, il cinema, la poesia, l’arte. Poi, ripristinata la democrazia in Grecia e conclusa la stagione dell’attivismo politico in Italia, il silenzio. Grecia e Italia hanno smesso di parlarsi o hanno cominciato a farlo in tono minore. Il cinema greco nella Penisola è diventato merce più unica che rara (con l’eccezione di Anghelopoulos), così come il cinema italiano in Grecia è pressocché sconosciuto. La letteratura è stata diffusa di meno (solo di recente si riscontra il risveglio di un certo interesse reciproco) e le priorità sono diventate altre: per l’Italia allinearsi ai modelli di consumo anglosassoni, soprattutto americani; per la Grecia costruire una moderna democrazia parlamentare, che era qualcosa di sostanzialmente inedito nel Paese.
Oggi quello che il greco medio sa dell’Italia si limita alla moda, e quello che l’italiano medio sa della Grecia si limita allo yogurt (e alle isole delle Cicladi mèta del turismo nostrano). Con il tempo, l’Italia ha “dimenticato” la Grecia finché un bel giorno, diciamo all’inizio del 2010, si è cominciato a sentir parlare nuovamente di Grecia, in modo insistente e “storico”: il Paese è sull’orlo del fallimento, il Paese deve avviare un programma di risanamento-choc della sua economia, la sua permanenza nell’area dell’euro è incerta, ma i cittadini italiani possono stare tranquilli perché l’Italia (secondo quanto asserisce il governo) “non è la Grecia né finirà come la Grecia”.
A partire da quel momento tutti sono diventati esperti della Grecia: sino al giorno prima trovare qualcuno che ne parlasse con cognizione di causa era come cercare un ago nel pagliaio, e all’improvviso tutti sapevano tutto del Paese ellenico. Ma la Grecia conserva bene i suoi segreti. Pochi sono in grado di comprenderne la lingua (il cosiddetto greco moderno, che personalmente preferisco chiamare “greco” e basta) e pertanto pochi sono coloro che hanno accesso agli organi di stampa ellenici. Ancor meno sono coloro che posseggano un minimo di conoscenze storiche sul Paese, indispensabili per comprenderne l’oggi. Nessuno di questi “esperti” dirà, per esempio, che buona parte dei nonni degli attuali undici milioni di greci non sono nati entro i confini dell’attuale repubblica ellenica. I greci, infatti, vivevano sparsi entro i confini dello smisurato impero Ottomano (a sua volta erede dell’impero Romano d’oriente, che si suole chiamare “Bizantino”): c’erano greci a Costantinopoli e nel Ponto, c’erano greci ad Alessandria e a Beirut, c’erano greci nella Valacchia, in Crimea e in Anatolia. Ma non solo: c’erano greci a Trieste e a Venezia, c’erano greci a Marsiglia e a Livorno, c’erano greci in Georgia e in Russia (che avevano dimenticato la lingua greca ma avevano conservato la consapevolezza etnica). A partire dall’Ottocento, poi, folte e prospere comunità greche esistevano anche a Londra, a New York, in Sud America: è la Diaspora ellenica, che ovunque si trovasse, aveva recepito gli usi, i costumi, a volte la lingua (come accadde per i greci della Georgia, i cosiddetti “rossoponti”, e per i karamanlides, greci turcofoni che scrivevano il turco in alfabeto greco) della cultura dominante, senza mai dimenticare, però, il proprio retaggio.
Quasi nessuno, inoltre, ricorderà che nel 1922 e poi nel 1955 la parte più prospera di questa diaspora (quella di Smirne e di Costantinopoli) si trasferì in massa in Grecia, e soprattutto ad Atene. Nel 1922 l’accordo per lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia prevedeva il trasferimento in massa di circa un milione e mezzo di greci dall’Asia Minore in Grecia: come sottolinea lo storico inglese Mark Mazower, nella sua storia recente nessun altro Paese europeo ha conosciuto un così repentino arrivo di profughi che avevano perso tutto e che avevano bisogno immediato di un tetto, di cibo, di lavoro, di sicurezza.
Un milione e mezzo di anime su sei milioni di abitanti, il 25 per cento della popolazione esistente: come se in Italia piombassero da un giorno all’altro quindici milioni di profughi. Da allora la Grecia non sarebbe stata più la stessa. Ma la lunga storia dei rifugiati greci non finisce qui: nel 1955 i greci di Istanbul furono costretti a lasciare una città che non era più considerata sicura, i greci d’Egitto lasciarono Alessandria e il Cairo in seguito all’ascesa del regime di Nasser. Nel 1992 il ponte aereo e navale “Vello d’oro” trasferì in Grecia circa centomila “rossoponti” rimasti coinvolti nei conflitti seguiti al crollo dell’ex Unione Sovietica: appena vent’anni fa si sono riproposti, certo in tono minore, gli eventi di settant’anni prima.
I greci dunque, prima ancora che una nazione, sono un popolo, abituato al vasto mondo. L’unico parallelo storico che forse si potrebbe istituire è quello con gli ebrei e con Israele: una popolazione sparsa ovunque nel mondo che “fa ritorno” alla terra dei padri. Così molti greci sono tornati alla terra dei padri, entro i confini, talora angusti, dello Stato nazionale. Uno Stato nazionale che, in un certo senso, si è completato soltanto nel 1992, con l’arrivo dei rossoponti. In parallelo, si hanno gli sforzi continui di un piccolo Paese che nonostante le difficoltà straordinarie della sua realizzazione storica, ha sempre cercato di non perdere il treno della modernità. Con successo: nonostante la grave crisi economica e la recessione, la Grecia nel 2011 è ancora il trentasettesimo Paese più sviluppato del mondo in termini di PIL (l’Italia è il ventinovesimo – fonti del Fondo Monetario Internazionale) e il trentaquattresimo miglior Paese in cui venire al mondo (secondo l’Economist – l’Italia è ventunesima).
Il piccolo Paese nato tra mille travagli, che ancora accoglie profughi della diaspora ellenica (e che, non dimentichiamolo, negli ultimi vent’anni ha offerto un sogno e la possibilità di realizzarlo a un paio di milioni di immigrati), questo piccolo Paese, dunque, non intende rinunciare alla “modernità” e all’“illuminismo”, che tra l’altro ne hanno determinato la nascita stessa: i rivoluzionari del 1821, infatti, erano imbevuti degli ideali della Rivoluzione francese e dell’illuminismo, diffusi da quelli che in Grecia sono detti i “grandi Maestri della nazione” – molti dei quali chierici.
Una genesi come questa non può non lasciare strascichi, ferite, buchi neri e problemi: la necessità di fornire un tetto alla gran massa di profughi ha spesso indotto a mettere in secondo piano il fattore estetico nell’espansione delle città – che peraltro, altrettanto spesso, hanno dovuto fare i conti con un altro fattore, l’importanza dell’archeologia e del collegamento con il mondo antico, determinanti nella costruzione della moderna identità ellenica: per esempio, circa metà di quello che era rimasto, dopo la rivoluzione del 1821, dell’Atene bizantina e ottomana fu demolita per lasciar spazio agli scavi archeologici. In compenso, le famiglie dei profughi hanno avuto la possibilità, in tempi relativamente brevi, di costruirsi una casa grazie alla distribuzione di terra demaniale da parte del governo – anche se ciò non è sempre avvenuto in maniera pacifica. Un altro strascico è la difficoltà che, storicamente, ha sempre avuto uno Stato recente come quello greco di imporsi su una mentalità familistica e individualistica, che i greci avevano dovuto necessariamente sviluppare nel corso degli oltre cinquecento anni di dominazione ottomana. L’impero Ottomano, infatti, privo com’era di una efficiente organizzazione statale centralizzata, lasciava ampi spazi di autonomia alle comunità non musulmane poste sotto il suo controllo demandando l’amministrazione locale ai “proestì” (i maggiorenti), alla Chiesa ortodossa e alle commissioni dei villaggi, che spesso facevano capo ai tsiflikades, i grandi proprietari terrieri. Tale mentalità fa spesso capolino anche oggi: non sempre, per esempio, i sindacati, i partiti politici, le “corporazioni” funzionano in nome della collettività, ma piuttosto in nome degli interessi particolari che essi rappresentano (e questo noi, in Italia, lo sappiamo bene).
Ciononostante, la democrazia parlamentare è consolidata, i greci hanno saputo farne buon uso, e resta il dono più prezioso che la sua Storia travagliata abbia lasciato a questo Paese. E veniamo all’oggi: dopo la fine della dittatura, era necessario chiudere i conti lasciati aperti dopo la guerra civile. Dal 1950 al 1974, infatti, una conventio ad excludendum ancora più rigorosa di quella italiana (il partito comunista greco era stato dichiarato fuorilegge) aveva lasciato fuori dalla rappresentatività collettiva una parte consistente della popolazione. A partire dal 1981, con l’ascesa al potere del partito socialista di Andreas Papandreou, si è creduto di sanare questa ferita molto profonda ricorrendo soprattutto allo statalismo e ai prestiti internazionali. La scolarizzazione e l’università di massa, la crescita smisurata dell’apparato pubblico, il controllo (diretto e indiretto) dello Stato e dei sindacati sull’attività economica erano parti indispensabili di questo programma, il cui obiettivo era la formazione rapida di una “classe media” fedele ai partiti “centristi” e il consolidamento di una pace sociale basata sull’“oblio” delle persecuzioni politiche del passato (da notare che nella Grecia antica l’oblio era una vera e propria categoria politica). Il progresso materiale ed economico del Paese, in questo trentennio, è stato straordinario e l’accresciuto benessere dei cittadini ha indebolito il controllo di questi ultimi su una classe politica che scivolava progressivamente in una spirale di incapacità, di corruzione e di populismo.
L’ingresso nella zona dell’euro ha, se possibile, peggiorato la situazione: il ricorso al prestito internazionale, più facile ed economico che mai, ha spinto una classe politica pigra e miope (nella migliore delle ipotesi), ma anche attenta a non perdere i propri privilegi, a sprecare fiumi di denaro internazionale privo di qualsiasi riscontro sul miglioramento della produttività e della competitività. Sulla stessa lunghezza d’onda, peraltro, si sono mosse spesso le organizzazioni sindacali confederali, come diremmo in Italia, e di base, che non hanno saputo mettere un freno alle richieste dei propri rappresentati, peraltro strizzando l’occhio ai politici, che ben volentieri hanno allargato i cordoni della borsa in vista della conservazione del proprio potere.
La cronaca dolorosa dell’ultimo triennio è l’epilogo di questa lunga storia di sradicamenti, di sviluppo a salti, di difficoltà di costruzione di uno Stato nazionale che tuttavia ha saputo trovare, sia pure faticosamente, un posto di rilievo nella comunità internazionale – come dice uno scrittore greco: “In un certo senso è come se il Paese non avesse ancora trovato il suo assetto dopo la rivoluzione del 1821: in fin dei conti, per un popolo antico come il nostro, duecento anni sono un periodo di tempo piuttosto breve”.
Ma anche stavolta bisogna sapersi guardare dalle apparenze: nel senso che, a fronte di una buona fetta di popolazione che si ritrova a fare i conti con un brusco cambiamento nelle proprie abitudini, c’è anche una buona parte di popolazione che l’arrivo della crisi l’aveva percepito da tempo e che adesso è disposta a rimboccarsi le maniche per uscirne: ne sono la prova le decine di iniziative imprenditoriali, soprattutto nel campo delle nuove tecnologie e dell’agricoltura avanzata, assunte da giovani pieni di buona volontà e di passione, che scorgono nella crisi la possibilità di far fare un salto in avanti al Paese, verso quell’assestamento ormai indispensabile.
Perché la crisi greca è anche, in filigrana, uno scontro generazionale: da una parte i “vecchi” con le loro logiche ormai superate; e dall’altro i “giovani”, pronti a far ripartire il Paese in una direzione completamente diversa. Di queste iniziative si parla poco, in Italia: sarebbe bello se qualcuno decidesse di occuparsene (qualcuno lo sta già facendo, per fortuna).

Maurizio De Rosa

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Abbiamo scelto questa canzone perché in qualche modo ci rappresenta, anche se è una condizione piuttosto comune a molti nella nostra epoca. Anche noi quando dobbiamo riunirci, per un motivo o per l'altro, per impegni di uno o dell'altro, troviamo difficile se non impossibile incontrarci. Inoltre è cantata da un gruppo di bravi artisti affiatati che speriamo possano portare fortuna alla nostra associazione. Cliccando qui possiamo trovare il testo e la traduzione in italiano