Abbiamo chiesto ad alcuni amici greci e italiani che vivono in Grecia, o che comunque ne conoscono la realtà con chiara competenza, di raccontarci la loro Grecia, scriverci poche righe o tante parole per vivacizzare questo blog, per aprire dibattiti, per stimolare la riflessione sul dannato Paese ellenico che tutti amiamo, per contribuire a conoscere sempre meglio una Terra e un Popolo forte, dignitoso, coraggioso, che nei secoli ha vinto e perso tante battaglie, e quella politico-economica di questi ultimi anni non sarà forse l'ultima e nemmeno la più grave.
Le risposte sono state immediate e positive, più di quanto potessimo sperare. Gli interventi ci sono stati promessi e presto cominceranno ad arrivare, a seguire il primo e più tempestivo, un'analisi storico sociale di Maurizio De Rosa da Atene che definire semplicemente come contributo non renderebbe merito alla profondità e all'ampiezza di osservazione degli argomenti trattati. L'osservatorio privilegiato da cui spazia Maurizio e la sua competenza professionale che gli consentono di cavalcare due culture e due lingue, quella italiana e quella greca, hanno dato vita in poche ore ad un compendio, un saggio pregevole e utile a chiunque desideri avvicinarsi al mondo ellenico, e gli siamo grati che lo abbia voluto donare al Dopolavoro Filellenico.
Auspichiamo che possa essere un punto di partenza che richiami ulteriori riflessioni, che apra quel dibattito che ci eravamo proposti, che getti luce sulla società greca del nostro tempo e contribuisca ad avvicinarne nuovi e convinti amici.
Inutile scrivere che il contributo di ognuno non solo è gradito, ma soprattutto atteso.
Le risposte sono state immediate e positive, più di quanto potessimo sperare. Gli interventi ci sono stati promessi e presto cominceranno ad arrivare, a seguire il primo e più tempestivo, un'analisi storico sociale di Maurizio De Rosa da Atene che definire semplicemente come contributo non renderebbe merito alla profondità e all'ampiezza di osservazione degli argomenti trattati. L'osservatorio privilegiato da cui spazia Maurizio e la sua competenza professionale che gli consentono di cavalcare due culture e due lingue, quella italiana e quella greca, hanno dato vita in poche ore ad un compendio, un saggio pregevole e utile a chiunque desideri avvicinarsi al mondo ellenico, e gli siamo grati che lo abbia voluto donare al Dopolavoro Filellenico.
Auspichiamo che possa essere un punto di partenza che richiami ulteriori riflessioni, che apra quel dibattito che ci eravamo proposti, che getti luce sulla società greca del nostro tempo e contribuisca ad avvicinarne nuovi e convinti amici.
Inutile scrivere che il contributo di ognuno non solo è gradito, ma soprattutto atteso.
E
all’improvviso fu la Grecia. Un Paese che negli ultimi 35 anni gli
italiani si erano abituati a considerare niente più che un appartato
paradiso per le vacanze, un luogo indispensabile per la
consapevolezza europea (almeno nell’animo di chi nutre sensibilità
del genere), con un passato illustre, ma al riparo dai sussulti della
Storia. In altre parole, il ritratto della Grecia che ci ha offerto,
una ventina d’anni fa, Gabriele Salvatores nel film premio Oscar
Mediterraneo:
un luogo dove fuggire e nascondersi dal divenire. Quale ironia!
Perché, al contrario, la Storia è sempre stata molto presente in
Grecia. Ancora negli anni Settanta questa consapevolezza era viva: il
settennato della giunta militare dei Colonnelli coincideva con la
particolare situazione politica e sociale italiana creando una
corrente d’interesse nei confronti di tutto quello che arrivava da
Oltreionio: la musica, il cinema, la poesia, l’arte. Poi,
ripristinata la democrazia in Grecia e conclusa la stagione
dell’attivismo politico in Italia, il silenzio. Grecia e Italia
hanno smesso di parlarsi o hanno cominciato a farlo in tono minore.
Il cinema greco nella Penisola è diventato merce più unica che rara
(con l’eccezione di Anghelopoulos), così come il cinema italiano
in Grecia è pressocché sconosciuto. La letteratura è stata diffusa
di meno (solo di recente si riscontra il risveglio di un certo
interesse reciproco) e le priorità sono diventate altre: per
l’Italia allinearsi ai modelli di consumo anglosassoni, soprattutto
americani; per la Grecia costruire una moderna democrazia
parlamentare, che era qualcosa di sostanzialmente inedito nel Paese.
Oggi quello che il greco medio sa dell’Italia si limita alla moda,
e quello che l’italiano medio sa della Grecia si limita allo yogurt
(e alle isole delle Cicladi mèta del turismo nostrano). Con il
tempo, l’Italia ha “dimenticato” la Grecia finché un bel
giorno, diciamo all’inizio del 2010, si è cominciato a sentir
parlare nuovamente di Grecia, in modo insistente e “storico”: il
Paese è sull’orlo del fallimento, il Paese deve avviare un
programma di risanamento-choc della sua economia, la sua permanenza
nell’area dell’euro è incerta, ma i cittadini italiani possono
stare tranquilli perché l’Italia (secondo quanto asserisce il
governo) “non è la Grecia né finirà come la Grecia”.
A partire
da quel momento tutti sono diventati esperti della Grecia: sino al
giorno prima trovare qualcuno che ne parlasse con cognizione di causa
era come cercare un ago nel pagliaio, e all’improvviso tutti
sapevano tutto del Paese ellenico. Ma la Grecia conserva bene i suoi
segreti. Pochi sono in grado di comprenderne la lingua (il cosiddetto
greco moderno, che personalmente preferisco chiamare “greco” e
basta) e pertanto pochi sono coloro che hanno accesso agli organi di
stampa ellenici. Ancor meno sono coloro che posseggano un minimo di
conoscenze storiche sul Paese, indispensabili per comprenderne
l’oggi. Nessuno di questi “esperti” dirà, per esempio, che
buona parte dei nonni degli attuali undici milioni di greci non sono
nati entro i confini dell’attuale repubblica ellenica. I greci,
infatti, vivevano sparsi entro i confini dello smisurato impero
Ottomano (a sua volta erede dell’impero Romano d’oriente, che si
suole chiamare “Bizantino”): c’erano greci a Costantinopoli e
nel Ponto, c’erano greci ad Alessandria e a Beirut, c’erano greci
nella Valacchia, in Crimea e in Anatolia. Ma non solo: c’erano
greci a Trieste e a Venezia, c’erano greci a Marsiglia e a Livorno,
c’erano greci in Georgia e in Russia (che avevano dimenticato la
lingua greca ma avevano conservato la consapevolezza etnica). A
partire dall’Ottocento, poi, folte e prospere comunità greche
esistevano anche a Londra, a New York, in Sud America: è la Diaspora
ellenica, che ovunque si trovasse, aveva recepito gli usi, i costumi,
a volte la lingua (come accadde per i greci della Georgia, i
cosiddetti “rossoponti”, e per i karamanlides, greci turcofoni
che scrivevano il turco in alfabeto greco) della cultura dominante,
senza mai dimenticare, però, il proprio retaggio.
Quasi nessuno,
inoltre, ricorderà che nel 1922 e poi nel 1955 la parte più
prospera di questa diaspora (quella di Smirne e di Costantinopoli) si
trasferì in massa in Grecia, e soprattutto ad Atene. Nel 1922
l’accordo per lo scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia
prevedeva il trasferimento in massa di circa un milione e mezzo di
greci dall’Asia Minore in Grecia: come sottolinea lo storico
inglese Mark Mazower, nella sua storia recente nessun altro Paese
europeo ha conosciuto un così repentino arrivo di profughi che
avevano perso tutto e che avevano bisogno immediato di un tetto, di
cibo, di lavoro, di sicurezza.
Un milione e mezzo di anime su sei
milioni di abitanti, il 25 per cento della popolazione esistente:
come se in Italia piombassero da un giorno all’altro quindici
milioni di profughi. Da allora la Grecia non sarebbe stata più la
stessa. Ma la lunga storia dei rifugiati greci non finisce qui: nel
1955 i greci di Istanbul furono costretti a lasciare una città che
non era più considerata sicura, i greci d’Egitto lasciarono
Alessandria e il Cairo in seguito all’ascesa del regime di Nasser.
Nel 1992 il ponte aereo e navale “Vello d’oro” trasferì in
Grecia circa centomila “rossoponti” rimasti coinvolti nei
conflitti seguiti al crollo dell’ex Unione Sovietica: appena
vent’anni fa si sono riproposti, certo in tono minore, gli eventi
di settant’anni prima.
I greci dunque, prima ancora che una
nazione, sono un popolo, abituato al vasto mondo. L’unico parallelo
storico che forse si potrebbe istituire è quello con gli ebrei e con
Israele: una popolazione sparsa ovunque nel mondo che “fa ritorno”
alla terra dei padri. Così molti greci sono tornati alla terra dei
padri, entro i confini, talora angusti, dello Stato nazionale. Uno
Stato nazionale che, in un certo senso, si è completato soltanto nel
1992, con l’arrivo dei rossoponti. In parallelo, si hanno gli
sforzi continui di un piccolo Paese che nonostante le difficoltà
straordinarie della sua realizzazione storica, ha sempre cercato di
non perdere il treno della modernità. Con successo: nonostante la
grave crisi economica e la recessione, la Grecia nel 2011 è ancora
il trentasettesimo Paese più sviluppato del mondo in termini di PIL
(l’Italia è il ventinovesimo – fonti del Fondo Monetario
Internazionale) e il trentaquattresimo miglior Paese in cui venire al
mondo (secondo l’Economist – l’Italia è ventunesima).
Il
piccolo Paese nato tra mille travagli, che ancora accoglie profughi
della diaspora ellenica (e che, non dimentichiamolo, negli ultimi
vent’anni ha offerto un sogno e la possibilità di realizzarlo a un
paio di milioni di immigrati), questo piccolo Paese, dunque, non
intende rinunciare alla “modernità” e all’“illuminismo”,
che tra l’altro ne hanno determinato la nascita stessa: i
rivoluzionari del 1821, infatti, erano imbevuti degli ideali della
Rivoluzione francese e dell’illuminismo, diffusi da quelli che in
Grecia sono detti i “grandi Maestri della nazione” – molti dei
quali chierici.
Una genesi come questa non può non lasciare
strascichi, ferite, buchi neri e problemi: la necessità di fornire
un tetto alla gran massa di profughi ha spesso indotto a mettere in
secondo piano il fattore estetico nell’espansione delle città –
che peraltro, altrettanto spesso, hanno dovuto fare i conti con un
altro fattore, l’importanza dell’archeologia e del collegamento
con il mondo antico, determinanti nella costruzione della moderna
identità ellenica: per esempio, circa metà di quello che era
rimasto, dopo la rivoluzione del 1821, dell’Atene bizantina e
ottomana fu demolita per lasciar spazio agli scavi archeologici. In
compenso, le famiglie dei profughi hanno avuto la possibilità, in
tempi relativamente brevi, di costruirsi una casa grazie alla
distribuzione di terra demaniale da parte del governo – anche se
ciò non è sempre avvenuto in maniera pacifica. Un altro strascico è
la difficoltà che, storicamente, ha sempre avuto uno Stato recente
come quello greco di imporsi su una mentalità familistica e
individualistica, che i greci avevano dovuto necessariamente
sviluppare nel corso degli oltre cinquecento anni di dominazione
ottomana. L’impero Ottomano, infatti, privo com’era di una
efficiente organizzazione statale centralizzata, lasciava ampi spazi
di autonomia alle comunità non musulmane poste sotto il suo
controllo demandando l’amministrazione locale ai “proestì” (i
maggiorenti), alla Chiesa ortodossa e alle commissioni dei villaggi,
che spesso facevano capo ai tsiflikades, i grandi proprietari
terrieri. Tale mentalità fa spesso capolino anche oggi: non sempre,
per esempio, i sindacati, i partiti politici, le “corporazioni”
funzionano in nome della collettività, ma piuttosto in nome degli
interessi particolari che essi rappresentano (e questo noi, in
Italia, lo sappiamo bene).
Ciononostante, la democrazia parlamentare
è consolidata, i greci hanno saputo farne buon uso, e resta il dono
più prezioso che la sua Storia travagliata abbia lasciato a questo
Paese. E veniamo all’oggi: dopo la fine della dittatura, era
necessario chiudere i conti lasciati aperti dopo la guerra civile.
Dal 1950 al 1974, infatti, una conventio ad excludendum ancora più
rigorosa di quella italiana (il partito comunista greco era stato
dichiarato fuorilegge) aveva lasciato fuori dalla rappresentatività
collettiva una parte consistente della popolazione. A partire dal
1981, con l’ascesa al potere del partito socialista di Andreas
Papandreou, si è creduto di sanare questa ferita molto profonda
ricorrendo soprattutto allo statalismo e ai prestiti internazionali.
La scolarizzazione e l’università di massa, la crescita smisurata
dell’apparato pubblico, il controllo (diretto e indiretto) dello
Stato e dei sindacati sull’attività economica erano parti
indispensabili di questo programma, il cui obiettivo era la
formazione rapida di una “classe media” fedele ai partiti
“centristi” e il consolidamento di una pace sociale basata
sull’“oblio” delle persecuzioni politiche del passato (da
notare che nella Grecia antica l’oblio era una vera e propria
categoria politica). Il progresso materiale ed economico del Paese,
in questo trentennio, è stato straordinario e l’accresciuto
benessere dei cittadini ha indebolito il controllo di questi ultimi
su una classe politica che scivolava progressivamente in una spirale
di incapacità, di corruzione e di populismo.
L’ingresso nella zona
dell’euro ha, se possibile, peggiorato la situazione: il ricorso al
prestito internazionale, più facile ed economico che mai, ha spinto
una classe politica pigra e miope (nella migliore delle ipotesi), ma
anche attenta a non perdere i propri privilegi, a sprecare fiumi di
denaro internazionale privo di qualsiasi riscontro sul miglioramento
della produttività e della competitività. Sulla stessa lunghezza
d’onda, peraltro, si sono mosse spesso le organizzazioni sindacali
confederali, come diremmo in Italia, e di base, che non hanno saputo
mettere un freno alle richieste dei propri rappresentati, peraltro
strizzando l’occhio ai politici, che ben volentieri hanno allargato
i cordoni della borsa in vista della conservazione del proprio
potere.
La cronaca dolorosa dell’ultimo triennio è l’epilogo di
questa lunga storia di sradicamenti, di sviluppo a salti, di
difficoltà di costruzione di uno Stato nazionale che tuttavia ha
saputo trovare, sia pure faticosamente, un posto di rilievo nella
comunità internazionale – come dice uno scrittore greco: “In un
certo senso è come se il Paese non avesse ancora trovato il suo
assetto dopo la rivoluzione del 1821: in fin dei conti, per un popolo
antico come il nostro, duecento anni sono un periodo di tempo
piuttosto breve”.
Ma anche stavolta bisogna sapersi guardare dalle
apparenze: nel senso che, a fronte di una buona fetta di popolazione
che si ritrova a fare i conti con un brusco cambiamento nelle proprie
abitudini, c’è anche una buona parte di popolazione che l’arrivo
della crisi l’aveva percepito da tempo e che adesso è disposta a
rimboccarsi le maniche per uscirne: ne sono la prova le decine di
iniziative imprenditoriali, soprattutto nel campo delle nuove
tecnologie e dell’agricoltura avanzata, assunte da giovani pieni di
buona volontà e di passione, che scorgono nella crisi la possibilità
di far fare un salto in avanti al Paese, verso quell’assestamento
ormai indispensabile.
Perché la crisi greca è anche, in filigrana,
uno scontro generazionale: da una parte i “vecchi” con le loro
logiche ormai superate; e dall’altro i “giovani”, pronti a far
ripartire il Paese in una direzione completamente diversa. Di queste
iniziative si parla poco, in Italia: sarebbe bello se qualcuno
decidesse di occuparsene (qualcuno lo sta già facendo, per fortuna).
Maurizio De Rosa
Nessun commento:
Posta un commento